RUBRICA – La risposta è nei libri – La misoginia tra le righe

misoginia in letteratura

La Misoginia, dal greco μισέω, “odiare” e γυνή, “donna”, significa etimologicamente l’odio nei confronti della donna, manifestato dagli uomini o anche da altre donne.
L’atteggiamento del misogino può andare dalla semplice discriminazione alla violenza verbale o fisica. Molti intellettuali, scrittori, filosofi e personaggi storici sono stati riconosciuti come tali; per qualcuno la misoginia si è manifestata esclusivamente nell’esprimere apertamente posizioni contrarie alla donna e al suo ruolo nella società, mentre per altri si è manifestata in un’evidente patologia.
“Come l’ago della bussola segna il nord, così il dito accusatore dell’uomo trova sempre una donna a cui dare la colpa” così scrive in “Mille splendidi Soli” Khaled Hosseini, riassumendo in una frase come per secoli la donna sia stata un capro espiatorio per gli uomini, incolpata anche per cattiverie, ingiustizie o scelte fatte dagli stessi.
In certi paesi, come l’Afghanistan di Mille Splendidi Soli, questo accade ancora: le donne sono umiliate ed emarginate dalla società per colpe degli uomini, come la violenza sessuale, venendo addirittura accusate di “provocare” gli uomini nel compiere il gesto di violenza, inducendoli alla tentazione solo attraverso un vestiario che metta in risalto le forme fisiche anche in maniera trascurabile o con una parola di troppo.
Ma non dobbiamo viaggiare così lontani o fare della misoginia qualcosa di collegato ad una sfera transnazionale o religiosa particolare, perché vive e si alimenta anche nei paesi occidentali “moderni” dove la donna ha guadagnato indipendenza economica e sociale.

Da cosa dipende ed in che pensiero si concretizza questo odio verso la popolazione femminile? Come spesso accade, per spiegare il presente dobbiamo partire dal passato e, come spesso accade, è la letteratura a spiegare e disegnare certi concetti in maniera semplice e ad offrirci spunti di riflessione.
Ci troviamo spesso a confrontarci con una narrazione che, oltre ad essere specchio di una cultura maschilista, finisce per rafforzare e convalidare una serie di stereotipi, legittimando una visione in cui la donna non solo oggettivamente ma anche giustamente è subordinata all’uomo.
Prendendo ad esempio due tra le figure femminili più note in tutta la cultura occidentale, Eva e Pandora, possiamo osservare come nei più diversi contesti narrativi, i ruoli particolarmente scomodi siano attribuiti alla donna.

La figura di Eva è tratta dalla tradizione biblica mentre quella di Pandora dal mito greco del poeta Esiodo; gli scritti che le ospitano vogliono esprimere una morale fornendo, con la narrazione di un aneddoto, un insegnamento.
Eva, sottraendosi al comando divino e mangiando il frutto proibito si imprime la macchia indelebile del peccato e, in questo vortice di incoscienza trascina anche Adamo e tutta la sua discendenza; la risonanza della sua colpa si amplifica con un’eco che continuerà a propagarsi nell’eternità. Eva ha condannato infatti tutta l’umanità alla cacciata dal paradisiaco giardino dell’Eden e, se anche Adamo ha una colpa, essa consiste solo nell’averla ascoltata ed imitata.
Lo sguardo inquisitorio rimane quindi fermo su Eva perché intorno a lei resta un alone di pericolosità da cui bisogna avere la prudenza di guardarsi bene. Per il suo errore Adamo sarà condannato a guadagnarsi il pane con il sudore della fronte mentre per Eva la punizione è di un’altra portata: Dio moltiplicherà le sue gravidanze, partorirà con dolore i figli e il marito la dominerà.
È evidente che la natura del castigo per lei deciso non è assoluta- mente neutra, ma è strettamente legata al suo sesso.

Anche nel mito di Pandora l’arrivo della donna sconvolge rovinosamente l’armonia preesistente dando inizio a una vita, per tutti gli uomini, segnata da sofferenza e disgrazie. In questo caso, anzi, Pandora viene appositamente fatta creare ad Efesto da Zeus con lo scopo di punire gli uomini per essersi appropriati del fuoco in modo disonesto. È una donna dalle belle sembianze a cui Ermes «pose nel cuore menzogne, scaltre lusinghe e indole astuta»: è, insomma, una donna il cui unico valore consiste nella bellezza del corpo e nel potere della seduzione ma che non ha altre qualità positive. Pandora è la donna che, per un banale capriccio e per l’incapacità di contenere la sua curiosità, innesca una catena di sventure senza fine, sollevando il coperchio del vaso che conteneva tutti i mali del mondo.

Un aspetto molto interessante è la relazione tra queste due don- ne e il male: non sono esse stesse il male ma sono l’essere attraverso il quale esso si propaga tra gli uomini, l’anello debole in cui trova lo spazio per potersi intrufolare. È un particolare che sembra spingere nella direzione di una connotazione negativa dell’essere donna su un piano ontologico, come a indicare una mancanza intrinseca che renderebbe le donne prede facili dell’inganno oppure ottime esche attraverso cui perpetrare orrendi misfatti.

Del tema del disprezzo nei confronti del genere femminile è pervasa tutta la produzione letteraria greca dell’età classica, non solo in Esiodo con il mito di Pandora.
Uno dei più famosi esempi di misoginia è dato da un componimento di Semonide, definito un vero e proprio manifesto della misoginia. L’autore presenta dieci diverse tipologie di donna, paragonandole ad animali ed elementi fisici.

Di questi dieci esempi solo quello dell’ape è positivo in quanto simbolo della donna laboriosa. I restanti versi sono un lungo catalogo di violento disprezzo. Egli ci presenta l’esempio della donna “cagna”, caratterizzata da una così forte curiosità che non si ferma “né con le minacce, né se t’arrabbi e le fracassi i denti con un sasso”. Successivamente vengono introdotte la donna “terra” e la donna “asina”. La prima viene descritta come “minorata, non ha idea né di bene né di male. Una cosa la sa: mangiare. E basta.” La seconda invece è “paziente alle botte, capace di tollerare il lavoro e si prende per amante chiunque”. Semonide conclude affermando che le donne sono il più grande male creato da Zeus e continua dicendo che “a qualche cosa par che servano, ma per chi le possiede sono un guaio”.

Questa visione misogina sembra non trovare prosecuzione in un autore del secolo successivo, come Euripide, ma in realtà in alcune sue tragedie sono presenti delle analogie con il pensiero semonideo. Euripide ci presenta, all’interno delle sue opere, figure femminili così carismatiche e dal carattere così forte che si è addirittura arrivati a parlare di “femminismo” euripideo. Egli stravolge i tradizionali ordini: sono le donne che posseggono sia il primato di intelligenza, che il primato etico. Esse inoltre riesco- no a raggiungere i loro obiettivi tramite piani ben organizzati e rappresentano modelli etici da seguire. Nel caso del personaggio di Alcesti, è lei ad incarnare la virtù del saper morire con onore, valore che veniva solitamente associato agli uomini; decide di immolarsi per il marito, al quale era stata offerta la possibilità, da parte del dio Apollo, di salvarsi a patto che qualcuno morisse al suo posto, dimostrando dunque di essere superiore a lui. In realtà si esalta l’accettazione del ruolo imposto, condannando la fuoriuscita dallo stesso: Alcesti incarna l’interiorizzazione del ruolo subordinato e la virtù del sacrificio di sé.

Medea, nell’omonima tragedia, dopo essere stata ripudiata da Giasone, decide di attuare una crudele vendetta; essa afferma che le donne sono le creature più infelici, spiega come sia necessario trovarsi un marito che diventerà poi il suo padrone. Vengono qui evidenziate le differenti situazioni: l’uomo può ripudiare la don- na, che invece non può fare lo stesso, oltretutto se l’uomo si stanca di stare in casa può uscire e alleviare la noia, mentre le donne non hanno questa possibilità e sono costrette a guardare solo una persona, il marito. Medea continua, affermando che sia un ragionamento insensato pensare che la condizione delle donne sia più facile in quanto priva dei pericoli della guerra: lei preferirebbe trovarsi in battaglia mille volte più che partorire un’unica volta. Euripide descrive quindi dettagliatamente la condizione della donna priva di protezione maschile e del triste destino che le spetta, quasi dimostrandosi sensibile alla loro sorte.
Ma per lo stesso autore risulta incomprensibile la mentalità femminile tanto che qualsiasi azione dal suo punto di vista immotivata, viene considerata come un atto di follia. Egli non nega la possibilità che la donna possa essere astuta ma questo risulta preoccupante: più la donna è scaltra, più potere può esercitare e quindi maggiori danni provocare.
Prendiamo in considerazione dello stesso autore, l’”Ippolito”, che narra delle sfortunate vicende che hanno come vittime dell’ira della dea Afrodite la matrigna Fedra e il figliastro Ippolito. In questo componimento le donne vengono descritte come un “ambiguo malanno” poiché sono fonte di guai per tutti quanti, che siano padrone o serve. Ippolito si rivolge a Zeus chiedendogli per quale motivo il genere umano sia costretto a subire continua- mente la presenza delle donne. Questo diventa evidente in un passo in cui viene detto che lo stesso padre, dopo aver generato la figlia, averla cresciuta e affidatole la dote, la manda via di casa per liberarsi da questo male. Successivamente Ippolito continua affermando che colui che si prende in casa questa creatura “nefasta” inizialmente ne gioisce, ma ciò può solo rivelarsi essere un male, sia che la donna sia inutile per la sua stupidità oppure saccente, situazione secondo Ippolito ancora peggiore, in quanto afferma che “in casa mia non vi sia una che sappia più di quanto convenga ad una donna”. Ippolito conclude affermando che l’unico modo per interagire con le donne è maledirle.

Questi pochi brani e autori che abbiamo citato ci offrono un quadro della società greca antica, all’interno della quale la donna era considerata non solo inferiore all’uomo, ma nemmeno allo stesso livello dell’essere umano: un oggetto da possedere, che passava dalle mani del padre alle mani del marito. Oggetto considerato nefasto e portatore solo di disgrazie e sciagure.

La misoginia aveva quasi sempre uno scopo funzionale, perché per gli uomini era conveniente non prendersi le proprie responsabilità colpevolizzando una categoria come quella femminile che non aveva nessun impatto nella sfera sociale e politica. Alle attività delle polis, infatti, non potevano partecipare donne e schiavi; la donna era di fatto sottomessa per tutta la vita all’autorità di una figura maschile, padre prima e marito dopo.
La misoginia contribuisce a giustificare l’esclusione delle donne e perpetuare i rapporti di subordinazione perché proprio i vizi attribuiti al genere femminile impediscono naturalmente la partecipazione femminile ai compiti che caratterizzano l’uomo libero come la guerra, la politica ed il possesso della terra.
La donna si qualifica o per alterità rispetto all’uomo, quasi sua opposizione, o per sottrazione rispetto ad esso: la donna è un maschio menomato quindi ad esso inferiore gerarchicamente. In entrambi i casi si parte da una visione androcentrica, dove il femminile esiste solo in relazione al maschile.

Le disuguaglianze storiche e sociali si trasformano in differenze naturali e quindi immutabili.
Dobbiamo ammettere che questa visione distorta, misogina e retrograda purtroppo si riflette ancora nella società moderna. Nonostante la donna oggi abbia un ruolo pubblico e sociale, le dinamiche relazionali sono ancora pervase da una mentalità androcentrica; la conquista della parità formale non ha ancora cancellato la plurimillenaria forma mentis discriminatoria e com- prenderne le ragioni di fondo può far si che la trama della misoginia possa sciogliere i propri nodi.
È solo dando voce alle donne che non ce l’hanno e con la promozione della parità di genere e l’autonomia femminile che potremmo vivere in un mondo senza misoginia, in cui anzi si apprezzano il valore e le abilità femminili allo stesso modo di quelle maschili. La democratica Atene si fingeva democratica proprio come oggi fanno molti paesi, che si ritengono paladini delle libertà individuali ma proprio per capire chi è davvero garante di questi diritti dobbiamo guardare alla condizione di ogni singolo individuo: donne, stranieri, uomini con credo religiosi differenti.

Vi lascio con questi interrogativi: l’odio è una forma di paura? Timore degli uomini di vedersi minacciati sul luogo di lavoro, privato, familiare, economico, sociale, politico; il terrore di perdere il controllo e di essere intaccati nella propria mascolinità, mito incarnato nel termine più vasto di “potere”?

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