L’ENERGIA NON RINNOVABILE

Quante volte ci chiedono come stiamo.
Quali risposte si forniscono tout court, ovvero senza riflettere sui contenuti delle stesse?
“Bene, grazie”; “Non c’è male”; “Tutto OK”; “Non lamentiamoci”, e così via.
Risposte spesso e volentieri frutto di cortesia comportamentale, di luoghi comuni, di abitudini assiomatiche.
Sarebbe difficoltoso e dispendioso scernere nella risposta i vari stati di benessere psico fisico. Complicato cioè affermare che si stainteriormente in equilibrio, però si ha dolore alla caviglia, si vive in armonia con la professione ma la famiglia lascia a desiderare.
Velocemente quindi, per interesse o convenienza, si risponde con parole riassuntive e consolidate. Tanto si sa che, chi ascolta, già conosce in qualche modo la risposta.
Questo sistema di uniformità lessicale, adoperato per esprimere concetti sullo status personale, interessa anche altri campi di azione, di impianto sociale, di istituzione economica, di criteri selettivi dell’idioma comune.
Facevo questa riflessione mentre ascoltavo un medico amico, appassionato, e convinto assertore, dell’omeopatia, una disciplina che nella sua sola parola, racchiude l’unione indivisibile fra psi- che e corpo.
Ed allora: conosciamola meglio.
Dal punto di vista etimologico, la parola Omeopatia deriva dal greco “Homoios” che significa “Simile” e da “Phatos” che significa “Sofferenza”.

È una medicina a tutti gli effetti, che basa le sue ragioni nella scienza cosiddetta olistica, intesa cioè come paradigma interpretativo o, come il mio amico medico afferma, una pseudoscienza, poiché non applica rigorosamente il metodo scientifico.

Quali possono essere pertanto le differenze fra la medicina tradizionale e quella omeopatica?
I sostenitori della seconda, asseriscono che tale sistema curativo cerca di ristabilire il giusto equilibrio all’interno dell’organismo, stimolando, con particolari sostanze, reazioni di difesa.

La medicina tradizionale invece, sempre per costoro, tende a far sparire i sintomi della malattia.
L’omeopatia è intesa come cura clinica basata sulla legge dei cosiddetti “simili”, ovvero: stimolo per provocare reazioni di difesa. Hahnemann, fondatore di tale medicina, non ha fatto altro che approfondire ed interpretare gli studi a suo tempo esperiti da Cullen.

Cosa aveva mai fatto questo farmacologo scozzese?
Aveva studiato gli effetti provocati sui raccoglitori dalla corteccia di china e di altre sostanze. La maggior parte di loro infatti, si ammalava regolarmente, presentando evidenti sintomi di malaria, con febbre e brividi.
Cullen allora iniziò a sperimentare su se stesso la reazione provocata da tali sostanze, scoprendo che le stesse, in lui che era sano, provocavano una serie di sintomi caratteristici della malattia. Utilizzate invece su di una persona malata, induceva una reazione di difesa nell’organismo che ne determinava la guarigione. Questa cura quindi si concentra sull’uso mirato dei rimedi atti

a provocare, nell’organismo malato, quelle reazioni capaci, non solo di far sparire il sintomo, ma soprattutto di ristabilire nell’organismo il giusto equilibrio psico-fisico. Molière, in una scena del terzo atto del “Malato Immaginario”, faceva dire ad un personaggio scenico: “Quasi tutti gli uomini muoiono a causa dei loro rimedi e non per le loro malattie”.

Non è che basta salire sul palcoscenico per avere ragione, ma questo concetto sta molto a cuore ai fautori dell’omeopatia: com- preso il mio amico.
Altra caratteristica di questo sistema curativo, è che gran parte dei rimedi dallo stesso previsti, sono composti da piante. Quali analogie allora possiamo trovare fra questa branca della medi- cina e quella tradizionale o “Allopatica”? Entrambe prevedono la somministrazione in piccole dosi di sostanze che provocano la malattia per combattere la stessa.

Conferma di ciò, sta per esempio nei composti dei vaccini, tanto di moda in questo periodo, o nelle iniezioni antiallergiche.
Altra possibile similitudine è la cosiddetta “Dose appropriata”e il concetto di medicina che provochi gli stessi sintomi che deve curare.

Come però lo stesso Hahnemann ha sempre ribadito, i due metodi, omeopatico e allopatico, pur avendo minimi punti in comune, non possono essere avvicinabili o abbinabili.
Se quindi è vero, come è vero, che l’omeopatia ha alle spalle un profondo sistema filosofico, le sue radici si immergono nella fisiologia energetica cinese, che studia il rapporto fra la dimensione spirituale e quella biologica dell’essere umano. Asserisce infatti che l’essere umano è percorso da una fitta rete di flussi energetici. La famosa interazione fra le due polarità denominate YIN e YANG, per le quali tutte le cose sono considerate come parte di un intero. A tal proposito il conosciuto Ippocrate affermava che: “L’uomo è parte inscindibile del cosmo e quindi sottoposto alle sue leggi”. Tale personaggio, vissuto fra il 450 e il 400 a.c., nell’isola greca di Cos, era figlio di un medico e considerato come il fondatore della scienza medica. Diede un metodo scientifico e tecnico ad una pratica esclusiva- mente empirica. Individuò infatti i vari passaggi necessari nella cura di un individuò: l’anamnesi (ricordo), la diagnosi (conoscenza) e la prognosi (previsione).

Inventò praticamente la cartella clinica.
Famoso poi il giuramento medico che porta il suo nome, con il quale vengono enunciati quelli che sono i principi fondamentali ed etici che deve seguire chi esercita tale professione, ovvero: impegnarsi per il bene del malato, rispettarlo come persona, man- tenendo il segreto professionale.
È suo anche il detto del fare, saper fare e far sapere.
Molti oggi lo travisano, facendo sapere senza fare o, quando va meglio, facendo senza sapere.
Detto fra noi, anche questa è una fisiologia energetica: è l’unico caso in cui mi auguro che non sia rinnovabile!

DETTO TRA NOI… IL MONDO IN TASCA

Settant’anni fa l’Italia, insieme a Francia, Lussemburgo, Germania Occidentale, Belgio e Paesi Bassi, partecipò alla costituzione della CECA, ovverosia la Comunità Europea per il Carbone e l’Acciaio. Iniziava praticamente una prima, timida, fase legata a quella che poi sarebbe diventato il principio della globalizzazione. Il patto era però soltanto economico con una collaborazione parziale e settoriale. Sei anni dopo l’accordo divenne politico con la costituzione della CEE e l’adesione graduale di altri Stati.

L’accordo  risultava però ancora limitato, essendo tagliati fuori gran parte degli Stati che gravitavano in Europa, soprattutto quelli vicini alla superpotenza sovietica. Finalmente arrivò quel fatidico giovedì, del nove novembre 1989, quando i quattro metri di altezza del muro e i 151 chilometri di filo spinato, che spaccavano in due la città di Berlino, si accartocciarono sotto le randellate del popolo tedesco.

La caduta del muro e il contemporaneo crollo dell’URSS, aprirono quindi uno scenario diverso di collaborazione fra i popoli, scaturita poi nel trattato di Meastricht del 1992 che creò l ‘attuale Unione Europea.  Il fenomeno aggregativo e complementare interessò altre parti del mondo, iniziando a caratterizzare un periodo di facilitazione e velocizzazione  di scambi economici, di tendenze, di idee diverse, di problematiche. Stava maturando una politica di liberalizzazione dei confini e delle dogane, nonché una conseguente dilatazione delle interdipendenze reciproche.

Praticamente germogliava quel seme della integrazione globale, piantato nel terreno evolutivo dell’avanzamento dei tempi e innaffiato dalla evoluzione tecnologica. Rimanevano però, ed ancora purtroppo restano, divari profondi fra i cosiddetti Paesi sviluppati e industrializzati, e quelli definiti del Terzo Mondo.

I popoli più poveri vivono tra loro momenti di solidarietà legata alla sopravvivenza; i ricchi verso i poveri, attuano azioni di sfruttamento; i ricchi fra loro creano situazioni di opportuna complicità.

Solo quando lo sfruttamento e l’opportunismo lasceranno il passo alla sussidiarietà, allora probabilmente la globalizzazione assumerà una diversa valenza.  Oggi come oggi, occorre prenderne atto,  esistono ancora aspetti condizionanti: economici, sociali, scientifici, culturali e così via.

Si va cioè verso il raggiungimento di una veloce omologazione dei prodotti, dei servizi e dei consumi. Alla velocità della luce!  

Soprattutto quando la globalizzazione è produttiva, ovvero de localizzata verso i Paesi più poveri, quelli cioè che hanno tante risorse ma non sanno come fare per sfruttarle, diventando inevitabilmente preda di una sfrenata economia capitalistica, che necessitano di cure mediche, di acqua potabile, di nutrizione, di senso d’orientamento, senza il quale si perde anche quello della comunità.

Dove non si capitalizza solo l’azione, ma anche il tempo per attuarla. Per questo infatti da una economia globale si è passati alla New Economy, dove l’utilizzo della telematica e la rivoluzione informatica ha annullato le distanze facendo accadere tutto in tempo reale.

Detto fra noi, negli anni sessanta si sognava di girare il mondo con le mani in tasca ed il cuore pieno di fantasia.

Oggi, grazie proprio alla globalizzazione, il cuore è rimasto, ma la fantasia un po’ meno.                                                                                                

Basta infatti mettere le mani in tasca, avviare il cellulare, ed ecco che sarà il mondo a venire da noi.

DETTO TRA NOI… NOBILE MA NON BLU

È come il prezzemolo.  

Sta bene dappertutto ma, in alcuni casi, è necessario se non indispensabile. Sto parlando del sangue, uno dei tanti componenti del nostro organismo: l’unico però che non può essere riprodotto artificialmente. È la rappresentazione più naturale e più intima della salute. Perdere sangue, infatti, nella concezione comune, significa perdere la vita. Come, d’altronde, il ricevere sangue, per sillogismo naturale, significa ricevere la vita. È la rappresentazione logica di tanti modi di essere, di costruiti luoghi comuni, di genuini detti popolari: buon vino fa buon sangue; non farti il sangue amaro; onta lavata col sangue; buon sangue non mente; fratelli di sangue; a sangue freddo o caldo; stare in sangue; lacrime di sangue, e così via.

Non sempre però il perdere sangue ha significato perdere la vita. Negli anni andati, la sua parziale dissolvenza era ritenuta infatti una panacea. Allora si chiamava semplicemente “salasso”, termine ugualmente abbinato a raffigurazioni di quotidianità.  Fino al 1400, veniva usato addirittura a scopo terapeutico; poi si scoprì che il sangue circolava comunque autonomamente dentro di noi. Lo strumento che i chirurghi usavano per salassare gli avventori, era chiamato lancetta. Erano talmente tante le richieste che dovettero ricorrere anche all’ausilio delle sanguisughe e dei barbieri: barba, capelli e…salasso!

Come appunto il prezzemolo, provarono ad utilizzarlo in svariate “salse”. Gli anni in cui si azzardava ad effettuare trasfusioni di sangue da animale a uomo, col risultato di febbri altissime, disturbi mentali e decessi. Tentarono allora da uomo a uomo, ma ancora non si conosceva la incompatibilità dei gruppi e del fattore Rh. La prima trasfusione fu compiuta nel 1492, quando tre giovani del popolo, “spintaneamente”, donarono la rossa linfa a Papa Innocenzo VIII, in pericolo di vita. Fu un disastro, visto che poi la vita la persero tutti i protagonisti, compreso il Santo Padre.

Si avventurarono allora con le sostanze liquide, iniettate grazie ad un rudimentale strumento utile allo scopo, che si chiamava schizzetto, fino a quando un sommesso professore di matematica, docente all’Università di Pisa, Giovanni Alfonso Borrelli, a metà del Seicento, non inventò la siringa. Ci vollero però ancora tre secoli per scoprire i gruppi sanguigni e quell’imprevedibile fattore Rh, sconosciuto antigene, che scorazzava baldanzoso sulla superficie dei globuli rossi della scimmia Rhesus Macacus. E tutto cambiò improvvisamente, rendendo quel prezzemolo di vita utilizzabile per ogni ricetta legata alla salute. Immaginate i vari usi del sangue e dei suoi derivati, che non sono legati solo alle comuni donazioni.

Penso al sangue del cordone ombelicale delle partorienti, utile per produrre cellule staminali; al gel piastrinico adoperato per l’autoriparazione dei tessuti e per sconfiggere le infiammazioni muscolari; al plasma, utilizzato anche per la fabbricazione di medicinali e, in questo pandemico momento, per produrre anticorpi monoclonali per sconfiggere il Covid 19.

Inconfutabile quindi l’interdipendenza fra sangue e salute, sangue e benessere, sangue e vita. E poco importa se nel Settecento i nobili d’allora lo utilizzavano per esaltare l’appartenenza sociale e l’invidiato rango, colorandosi le vene delle mani con un cosmetico blu. Fortunatamente il sangue, pur restando rosso, non ha colore né appartenenza e, detto fra noi, solo il gesto di chi lo dona per aiutare gli altri, può essere considerato nobile.                                           

DETTO TRA NOI… IL SESTO CONTENITORE

La velocità di trasmissione e diffusione di informazioni fra i popoli, ha portato anche al consolidamento di una terminologia specifica, che caratterizza modi di fare, di pensare, di giudicare, di scernere.              

Una sorta di aferesi mentale che consente all’individuo la immediata catalogazione di messaggi e notizie. Se, per esempio, ascolto la parola look down, in un battibaleno penso a restrizioni dettate dalla pandemia. Oppure low coast mi fa repentinamente pensare ad una situazione dal doppio significato: viaggiare risparmiando.    

Un frasario convenzionale che ci accompagna nella frenesia del nostro vivere comune. Stessa cosa vale per la green economy dove però, la presa coscienza di un problema legato alla salute ed al futuro, ha generato una inclusione sociale ad ampio spettro. Se qualche decennio fa, parlare di green economy, significava pensare ad alternative futuribili di gestione economica dell’ambiente, catalogate più come espressioni motivazionali, che come capitoli di intervento immediato, oggi lo stesso termine abbraccia un vasto campo di azione e, soprattutto, dalla ingerenza improcrastinabile. Si è finalmente compreso che la vita delle future generazioni è direttamente proporzionale alla capacità che abbiamo noi di mantenere le giuste condizioni e le necessarie risorse, in grado di sostenere lo status sociale, ambientale ed economico di chi ci seguirà. Non siamo più nella condizione di dover seminare il terreno oggi, per far raccogliere i frutti a chi verrà domani. Siamo purtroppo costretti ad intervenire su quel terreno, diventato ormai stanco, improduttivo, sterile, eroso.

Non basterebbe l’atto del seminare per garantirsi una futura raccolta. Ecco perché si parla di economia sostenibile, dove lo sviluppo economico dell’umanità, deve camminare fianco a fianco con un utilizzo misurato e coscienzioso delle risorse naturali ancora disponibili.

Ho scritto volutamente “ancora”, perché il mancato e mirato intervento, portano inevitabilmente alla graduale perdita delle possibilità del necessario risanamento. Anche gli animali in via di estinzione vengono protetti con attenzioni particolari e tecniche riproduttive intensive. 

Non è più una questione di mera responsabilità sociale, ma innovativa. E l’innovazione cammina di pari passo con l’economia, diventando alla fine una questione geo politica. Non a caso, per esempio, si sta pensando di sperimentare la produzione di auto con batterie alimentate con potassio, piuttosto che con il litio.

Agli occhi dei più potrebbe apparire una decisione in grado di distribuire beneficio a tutti, senza riflettere sul fatto che, tale variazione strategica, penalizzerebbe alcune nazioni produttrici a vantaggio di altre. Porto un esempio ancora più banale: immaginate se, per assurdo, le automobili fossero alimentate a grano. Chi ci guadagnerebbe? I grandi produttori di frumento.

Ecco perché, quando parliamo di sostenibilità, non possiamo pensare solo all’ambiente ed al risparmio. Dobbiamo includere un codice etico, alimentandolo con giusti valori; un palinsesto ambientale, calandolo nel contesto sociale; una strategia comportamentale, sostenendola con un corretto sistema del fare.   Non possiamo dimenticare che, ogni anno, muoiono sessantamila persone a causa dell’inquinamento. La vita non può mai essere barattata con la corsa sfrenata verso il progresso. Ben vengano quindi gli interventi mirati a tali risultati, come: la produzione di energia pulita, la drastica riduzione dello smog e delle altre fonti inquinanti, la razionalizzazione dello smaltimento dei rifiuti.

Non a caso la Comunità Europea si è formalmente ed ufficialmente impegnata ad arrivare, entro il 2030, alla realizzazione di uno sviluppo sostenibile, portando al 55% la produzione energetica proveniente da fonti rinnovabili.

Sviluppo sostenibile è, quindi e soprattutto, la salvaguardia del principio della equità sociale. Produzione e smaltimento dovranno cioè convivere senza intaccare gli ecosistemi, ridistribuendo il tutto tra le diverse popolazioni, in maniera equilibrata e proporzionata. Non ci potrà mai essere reale sviluppo se transita attraverso l’emarginazione degli ultimi, quelli spesso rigettati dalla società. Siamo ormai tutti abituati a smaltire i rifiuti secondo la loro organicità: carta, plastica, vetro etc.

Di solito vengono smistati in cinque contenitori finalizzati e ben visibili. Poi c’è il sesto contenitore, nascosto perché posato sul pavimento della nostra coscienza. È quello che racchiude i nostri pregiudizi nei confronti di coloro che consideriamo rifiuti della società. I primi sono frutto dell’indifferenziata, i secondi dell’indifferenza.  

Detto fra noi, visto che questo sesto contenitore rimane quasi sempre pieno, proviamo a svuotarlo almeno in questi giorni di festa. Che bello sarebbe!

DETTO TRA NOI…

Lo sanno ormai in tanti.

La parola crisi, per i cinesi, significa opportunità.

Lo capì a suo tempo anche Sergio Marchionne quando, fuori da ogni previsione, con la Fiat acquistò la Chrysler. La difficoltà irreversibile della seconda, fu l’opportunità insperata della prima. Ovviamente, tra i due assiomi, è stata messa in campo una chiara valenza strategica e una sufficiente capacità di assorbimento del mercato. L’operazione, più aziendalistica che economica, è riuscita comunque a confermare che l’automobile rientra tra le preferenze e le abitudini del genere umano. Sia essa intesa come bene di necessità, che come mezzo di svago.

Fermiamoci per un attimo alla prima considerazione: la necessità.

Per una atavica legge di marketing, laddove esiste un grande problema, esiste sempre un grande mercato. Questo principio è però vero fino a un certo punto, perché la sua esaustiva reificazione passa attraverso la consapevolezza del problema.

Ovvero: il problema può esistere, ma non tutti ne sono consapevoli e quindi, per sillogismo derivato, se non tutti ne sono consapevoli, non tutti ne prendono concretamente atto.

Paradossalmente, ma non più di tanto, per il sistema dei consumi, la percezione del problema diventa più importante del problema stesso.

Quando si può raggiungere però velocemente la percezione?

Quando la dimensione del problema passa attraverso la paura.

Mi spiego meglio.

Ogni persona, al possibile piacere, preferisce non provare dolore. Anche questa è una priorità atavica.

Una cartina tornasole lo è il comportamento collettivo in questo periodo di Covid. Quando gli indici di contagio e, soprattutto dei decessi, erano in esponenziale crescita, la condotta comportamentale dei più è stata esemplare, con privazioni e sacrifici accettati e condivisi. 

Per un senso di riguardo verso la comunità? Forse. Per paura di ammalarsi e morire? Di sicuro!

E faccio queste deduzioni con il dovuto rispetto verso chi ha pagato con la propria vita il diffondersi del virus.

Con la discesa dell’indice del contagio, grazie agli accorgimenti adottati, è precipitata anche la percezione della paura e, di riflesso, la disponibilità, non solo alle privazioni, ma nemmeno all’elementare accorgimento del distanziamento sociale.

Per settimane e settimane, uno staff di infettivologi ha guidato, rassicurato, allarmato, consigliato, sentenziato. A volte con opinioni diverse su un argomento che, proprio perché materia scientifica, dovrebbe richiedere interpretazioni oggettive. Tutti loro diventati improvvisamente più famosi dei divi per eccellenza. E tutti loro a spingere sull’acceleratore dell’inquietudine collettiva. Dopo un po’, qualcuno ha lanciato un grido d’allarme: attenzione, se non si muore di Covid, si potrà morire di fame. Come per dire che, se ci si salva dal virus, non ci si potrà salvare da una profonda crisi economica.

Nasce spontanea una domanda: fino a dove ci si potrà spingere per trovare un compromesso fra la salvaguardia della salute e quella del portafoglio? Perché entrambe le condizioni fanno comunque perno sulla paura di non farcela. 

 L’unico filo conduttore che le può armonizzare è la disponibilità al rischio, che non può essere una asfittica roulette russa, dove non c’è alcuna possibilità di condizionamento e influenza personale. Dovrà essere la gestione di un rischio calcolato, dove la cognizione di causa dovrà andare a braccetto con il bisogno di agire. Considerando più che mai il fatto che la nostra libertà finisce laddove inizia il rispetto verso gli altri.

Un rapporto sociale consapevole quindi, non spinto dalla paura, ma dalla necessità. 

Un filo talmente labile che può però spezzarsi nel tempo di un respiro.

Questa riflessione mi fa pensare a quando i nostri emigranti in Australia, rientranti in patria, dovevano commiatarsi dai connazionali che, invece, restavano nella terra dei canguri. Il giorno della partenza, i primi si assiepavano sul ponte della nave, mentre chi restava, creava un cordone umano lungo tutto il molo. Ognuno di loro teneva in mano una lunga stella filante, striscia di carta che serviva per un momentaneo e aleatorio congiungimento. La nave iniziava a spostarsi pian piano, fermandosi solo quando le strisce erano ben tese. Attimi struggenti, dove i ricordi del passato si scontravano inesorabilmente con la realtà del presente e l’incertezza del futuro. 

Poi la partenza, non tanto evidenziata dalla sirena che squarciava il tormentoso brusio, ma dallo strappo di quei nastri fragili ed effimeri. 

Ecco, il momento che stiamo vivendo, per ciò che concerne la pandemia, è simile a quelle strisce in tensione. Sulla nave c’è la necessità di far girare comunque l’economia, sul molo l’opportunità di evitare il contagio.

Cerchiamo quindi di tenere il più possibile le strisce di carta in tensione, per il bene di tutti, scongiurando l’utilizzo di scialuppe e giubbotti di salvataggio.

Anche perché, detto tra noi, ognuno è capitano della propria nave nel mare del futuro.